Smart working, controllo a distanza del lavoratore e diritto alla disconnessione

Il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza del lavoratore e l’esecuzione della prestazione lavorativa resa in modalità telematica è ormai un argomento ampiamente discusso in giurisprudenza. 

Una questione difficile da definire con chiarezza e che va avanti da circa un decennio, ma che si è sviluppata maggiormente nell’ultimo anno in seguito all’aumento dell’utilizzo dello smart working incentivato dall’epidemia di Covid-19, poiché si presuppone una possibile ingerenza del datore di lavoro nell’operato svolto dai suoi dipendenti a casa. 

Il tema è discusso sia a livello italiano che europeo e si concentra sul definire il difficile bilanciamento tra il diritto alla riservatezza del lavoratore e l’interesse legittimo datoriale ad implementare lo smart working, con particolare riferimento ai problemi legati al diritto alla disconnessione.

 

In questo articolo andremo a chiarire gli ambiti coinvolti nella discussione giuridica. 

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Le normative del lavoro agile prima e durante il Covid-19

Prima della pandemia, nell’ordinamento italiano il lavoro agile – definito anche smart working – era disciplinato da più norme, tra cui la L. 81/2017 che promuove lo smart working come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita tramite accordo tra datore di lavoro e dipendente. In questa norma sono incluse anche le forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi – senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro -, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici.

Secondo la L. 145/2018 Comma 486, invece, esiste solo un motivo prioritario che permette al datore di lavoro di implementare il lavoro agile: dare priorità alle richieste formulate dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità e dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità. 

Successivamente, con l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, sono stati individuati alcuni casi in cui il dipendente acquisisce un vero e proprio diritto e non una mera priorità. 

Il D.L. n.18/2020 (d.l. Cura Italia), prima, e il D.L Rilancio, poi, hanno infatti individuato alcuni casi in cui il lavoratore ha diritto allo smart working, se però tale modalità è realmente compatibile con la mansione da svolgere. La valutazione di compatibilità è rimessa al datore di lavoro, che dovrà essere effettuata seguendo i principi di correttezza e buona fede.


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Trattamento dei dati personali del lavoratore: come funziona durante lo smart working

La protezione dei dati personali è un diritto fondamentale riconosciuto dalle fonti internazionali ed europee: secondo il Regolamento Europeo 2916/679 (GDPR) “gli Stati membri possono prevedere, con legge o tramite accordi collettivi, norme più specifiche per assicurare dei diritti e delle libertà rispetto al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro” (art. 88).

Rimane però in discussione se sia opportuna o meno l’adozione di una disciplina specifica nell’ambito del rapporto di lavoro. 

Secondo gli artt. 2086 e 2094 c.c. spetta al datore di lavoro rilevare l’interesse al controllo della prestazione lavorativa, la quale è funzionale non solo all’esercizio del potere disciplinare ma anche all’esercizio del potere organizzativo e direttivo.

Per poter lavorare da casa, bisogna però utilizzare strumenti informatici e, in questo particolare momento storico, è necessario:

  • adottare delle policy aziendali per l’utilizzo di tali strumenti informatici assegnati al dipendente;
  • precisare i termini di utilizzo anche per fini personali; 
  • indicare le regole di condotta da parte del dipendente nel loro uso;

Il datore di lavoro è tenuto, inoltre, ad informare il dipendente se, e in quale misura, si riserva di effettuare controlli sugli strumenti dati in dotazione.

Tuttavia, il Legislatore, prendendo atto che l’uso delle tecnologie nell’ambiente e nella prestazione di lavoro determina la possibilità di raccolta di dati personali del lavoratore, ha aggiunto un elemento di novità nella materia del trattamento dei dati personali nel diritto del lavoro. Tale novità è indicata nell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 200/1970). 

Qui il Legislatore ha distinto l’atto di raccolta e utilizzo come due operazioni concettualmente e materialmente distinte: ha legittimato l’atto di raccolta dei dati e ha subordinato quello di utilizzo a specifiche condizioni.

In base all’ultimo comma dell’art. 4 la raccolta di informazioni che riguarda indirettamente i singoli lavoratori è sempre consentita se derivante dall’impiego di strumenti legittimamente installati in azienda o utilizzati dal lavoratore, mentre l’adeguata informazione dei singoli lavoratori ed il rispetto della disciplina della privacy sono condizioni richieste ai fini della loro “utilizzabilità” per qualsiasi fine connesso al rapporto di lavoro.

In cosa consiste il diritto di disconnessione

Le discussioni sul lavoro agile e il controllo dei lavoratori è strettamente intrecciato ad un altro diritto, quello della disconnessione. 

Quando il lavoratore effettua la prestazione lavorativa in modalità smart working, di fatto, crea una reperibilità ed una connessione costante e continua che però rischia di compromettere il corretto bilanciamento tra la sfera professionale e quella lavorativa che è uno tra i presupposti dell’istituto del lavoro agile. 

La L. 81/2017 prevede due limiti per garantire l’effettività del diritto al riposo: 

1 – il lavoratore agile (anche in assenza di reali vincoli temporali) non può superare la durata dell’orario massimo previsto per legge o dai contratti collettivi (ex art. 18, comma 1)

2 – nell’accordo di smart working devono essere indicate le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro (ex art. 19, comma 1).

Anche il d.d.l. 2229 del 2016 il quale, all’art. 3, comma 7, rubricato “Disciplina giuridica della modalità di lavoro agile e diritto alla disconnessione”, prevedeva una versione articolata del diritto di disconnessione, in base al quale il lavoratore ha  diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e informatiche senza che ciò comporti effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi.

Tuttavia, già molte società europee hanno da tempo previsto – al di là di una previsione normativa di tale diritto – dei limiti di lavoro a livello di contrattazione aziendale al fine di sensibilizzare il lavoratore ad esercitare correttamente il diritto alla disconnessione.

Anche il Parlamento Europeo, il 21 gennaio 2021, ha adottato una Risoluzione recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione, invitando a valutare e ad affrontare i rischi di una mancata tutela di tale diritto. Il Parlamento ha anche invitato gli Stati membri e i datori di lavoro a garantire l’informazione dei lavoratori sul loro diritto alla disconnessione, in modo che possano esercitarlo correttamente (Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione (2019/2181(INL)).

Si è ancora in attesa di un effettivo riconoscimento del diritto alla disconnessione

Alla luce di tutto ciò si può notare come, a livello europeo, nel bilanciamento tra riservatezza e interessi legittimi datoriali, anche se si dispone di validi strumenti normativi a garanzia del lavoratore, si rimane in attesa di un intervento normativo europeo per riconoscere e proteggere effettivamente il diritto alla disconnessione, come ulteriore tutela dall’ingerenza datoriale nella vita privata.

Sul versante italiano, invece, il Legislatore opera sul presupposto che esisteva già una disciplina sostanziale che, prima della disciplina sulla privacy, provvedeva a limitare i poteri del datore di lavoro e ad evitare abusi.

L’uso delle informazioni raccolte, invece, è legittimato a qualsiasi fine connesso al rapporto di lavoro, circoscritto per effetto dell’applicazione dei principi del GDPR, che impone al datore di lavoro di comunicare preventivamente ai dipendenti le specifiche finalità di ogni tipologia di trattamento dei dati, e dei connessi principi di finalità, pertinenza e non eccedenza.

In ultimo, il nuovo art. 4 – in quanto norma posteriore rispetto alla disciplina del Codice della privacy – crea uno specifico presupposto legale di legittimazione del trattamento dei dati personali, che rende non più necessaria l’acquisizione  preventiva del consenso del lavoratore interessato, quando i dati sono legittimamente raccolti mediante gli strumenti consentiti dai primi due commi della stessa normativa.

Avvocato del lavoro Sergio Palombarini, legale per aziende, lavoratori e lavoratrici

L’avvocato del lavoro Sergio Palombarini è un appassionato della materia da molti anni e insieme ai professionisti del suo Studio affianca aziende, cooperative, lavoratori e lavoratrici nelle controversie legate al diritto del lavoro: dimissioni, licenziamenti, sanzioni disciplinari, assunzioni, infortuni, malattia, permessi, trattamento di disoccupazione, insinuazione di crediti in procedure fallimentari, redazione dei contratti e tutte le questioni giuslavoristiche e di diritto sindacale che toccano organizzazioni e personale subordinato. Le sedi dello Studio sono a Bologna in Via Bovi Campeggi 4 e Padova in Via S. Camillo De Lellis 37.

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